La parola “vino” racchiude in sé migliaia di sfaccettature diverse, vini diversi, che sono prodotti con uve estremamente diverse e provengono da zone talvolta molto differenti. Un’immensa geografia di sensazioni organolettiche.
Sarà che sono ormai più di quarant’anni che mi occupo di vino, sta di fatto che di discorsi, prese di posizione, verità apparentemente inconfutabili sull’argomento ne ho sentite proprio tante. Allora per iniziare vi faccio notare solo una cosa. Un Passito di Pantelleria, dorato, dolce e con profumi di albicocche essiccate, un Barolo, rosso, possente, qualche volta un po’ spigoloso e astringente, un Franciacorta, effervescente, giallo pallido, molto secco, sono tutti e tre “vini”. Non credo che esistano altri prodotti inseribili nella nostra bocca che hanno lo stesso nome ma che sono più diversi fra loro. I formaggi si avvicinano un po’, una mozzarella non somiglia a un parmigiano, un gorgonzola è diverso da un pecorino romano, ma comunque non riescono a rappresentare una variabilità così ampia come accade per il vino, che si declina in migliaia di modi differenti, un po’ come l’Essere di Platone.
Basti pensare che solo in Italia abbiamo più di cinquecento Doc (Denominazioni di Origine Controllate), altrettanti se non di più tipi di uve, e che quasi ogni paese ha un vino che si produce lì e che gli abitanti dei vari luoghi considerano inesorabilmente come il migliore del mondo.
Provate a dir loro il contrario e vi si rovescerà contro un mare di insulti.
“Altro che il Barolo, l’Aglianico che produce mio zio, quello è un grande vino”. “Ma quali vini francesi (come se poi fossero anche quelli ascrivibili a una singola tipologia), in Veneto c’è ben altro, e il Prosecco è buono quanto lo Champagne e costa meno”.
Anche la stampa generalista fa del suo meglio, così ogni anno ascoltiamo o leggiamo servizi dai toni trionfalistici sul fatto che l’Italia è il Paese che produce più vino al mondo, e che ha battuto la Francia. Peccato che con la stessa produzione, più o meno, il fatturato francese sia circa il doppio del nostro. Ma si sa, i Francesi sono bravi a vendersi bene, ma vuoi mettere la qualità italiana… E anche questo non è vero, ovviamente, ma ci piace crederlo e considerarci i più bravi di tutti, anche quando non lo siamo. Non che i “cugini” d’Oltralpe ci riservino trattamenti migliori, per molti di loro il “vino italiano” è roba da poveracci, una buona serie B nella migliore delle ipotesi. E la definizione di “cheap and cheerful” che molti appassionati inglesi e americani affibbiano alla maggior parte dei vini italiani è abbastanza indicativa.
Tutte generalizzazioni un po’ banali, ovviamente, come è insostenibile per i motivi che spiegavo più su quella di chi parla di “vino italiano”. Perché, semplicemente, il “vino italiano” non esiste. Esistono migliaia di vini diversissimi fra loro che non sono definibili in modo così uniforme e generico, se si vuole capire qualcosa. E non è “roba da esperti”, o solo “qualcosa da bere”. Fa parte delle nostre tradizioni, dei luoghi, dei climi e persino dei paesaggi.
Dopo tanti anni di onorato servizio nell’assaggio, nella valutazione, nella descrizione di molte migliaia di vini, quando mi capita di analizzarne uno la prima cosa che mi viene in mente è immaginare da dove può venire. Da una vigna vicino al mare, circondata da macchia mediterranea, magari con un po’ di sabbia nel suolo, oppure da una di alta collina, in una zona fredda, con un terreno sassoso e in pendenza.
Gli odori, i sapori, persino i colori mi aiutano a capire l’origine. È un gioco divertente, oltre che l’unico modo che conosco per affrontare una materia così sfaccettata, se non complessa. Perché, è vero, non parliamo di fisica delle particelle o di filosofia teoretica, ma solo di vini diversi, che sono molti però e provengono da zone talvolta molto differenti, e sono prodotti con uve estremamente diverse. In un’immensa geografia di sensazioni organolettiche.