A nove anni dalla sua scomparsa, un divertente ricordo della nostra vita professionale insieme, quando Stefano Bonilli andò alla Fiera del Libro di Francoforte.
“Vado alla Buchmesse (la fiera del libro, ndr) di Francoforte per cercare di trovare un editore internazionale per la Guida dei Vini, almeno per un’edizione in tedesco”. Così iniziò la storia ed eravamo nell’autunno del 1988 se ricordo bene. La risposta mia, di Franco Azara, che allora era l’amministratore delegato del Manifesto, e di Andrea Gabbrielli, che aveva iniziato a lavorare con noi da poco più di un anno, fu “Ma se tu non sai una parola di tedesco e neanche d’inglese, cosa pensi di combinare? Poi ci vogliono soldi per viaggio e albergo, dovrai pagarti pranzi e cene, chi ce li dà i quattrini?”
Ma Stefano Bonilli non si preoccupava di questi aspetti “pratici”, voleva trovare l’editore e doveva andare a Francoforte. Mainhattan, come la chiamano loro. Si trovò una pensioncina da quattro soldi, viaggiò con la sua Fiat Uno, e pagammo quasi facendo una colletta il minuscolo stand alla fiera. Poi qualche mese prima, io e lui eravamo andati a Berna a parlare con i manager della Hallwag e quindi parte del lavoro era fatta. Bisognava, secondo lui, solo farsi vedere e convincere i nostri possibili soci che non eravamo i “soliti italiani”.
Così fu e Bonilli raggiunse dopo un viaggio di una giornata la sua pensioncina nella periferia di Mainhattan, cioè Francoforte sul Meno, per dirla in modo comprensibile. “Tanto in Germania parlano tutti inglese, io me la cavo e voi anche,” Ultime parole famose. Lui non se la cavava bene e noi neanche, ma eravamo giovani entusiasti e qualcosa ci si doveva inventare per forza. Del resto con le invenzioni del Gambero Rosso e di Arci Gola, Carlin Petrini, Stefano, Franco Azara e il sottoscritto eravamo diventati professionisti nel buttare il cuore al di là dell’ostacolo.
Quello che accadde dopo fu fra il tragicomico e geniale. Intanto non era vero all’epoca che in Germania parlassero tutti inglese, di certo non il portiere della pensioncina, che, quando chiamavamo (i cellulari non esistevano) alla nostra richiesta “Mister Bonilli, please”, ci rispondeva in tedesco in modo ruvido e del tutto incomprensibile per noi. Cambiammo strategia, perché Annalisa Barbagli, che cominciava a collaborare con noi e sapeva un po’ di tedesco, ci disse che avremmo dovuto dire “Herr Bonilli Zimmer drei”, che vuol dire “il signor Bonilli alla camera tre”. Chiamavamo alle sette di sera a turno io, Franco Azara e qualche volta Andrea Gabbrielli, e la risposta era sempre ruvida e in tedesco, e raramente ce lo passavano al telefono. Non capivamo niente e ripetevamo, insistendo, e dopo qualche secondo “Herr” diventava in romanesco “Er”, quindi “Er Bonilli zimmerdrai”, in un dialetto romano teutonico da morire dalle risate perché dall’altra parte si arrabbiavano moltissimo.
Il lato geniale fu che, con tutte le difficoltà del caso, Stefano riuscì a concludere il contratto con la Hallwag di Berna, perché Beat Koelliker, il loro direttore editoriale dell’epoca, parlava anche italiano. Al suo ritorno ci convocò, e dopo averci adeguatamente insultato perché il portiere della pensioncina lo trattava malissimo, secondo lui per colpa nostra, ci disse “Mentre voi vi divertivate io ho convinto quegli svizzeri a fare l’edizione tedesca della guida dei vini” E così fu.
Stefano era anche questo, e a nove anni dalla sua scomparsa voglio ricordarlo così.