Rileggendo un articolo del ’79 di Veronelli sulla rivista Vini&Liquori, da lui diretta, ho trovato questo delizioso racconto sulla nascita del Sassicaia, fatto proprio dal Marchese Mario Incisa della Rocchetta.
In un vecchio numero di Vini&Liquori dell’aprile 1979, Luigi Veronelli che ne era direttore pubblicò un commento alla vittoria del Sassicaia 1972 in un concorso internazionale e una lettera di Mario Incisa della Rocchetta, padre di Nicolò e nonno di Priscilla, che raccontava come era nato quel vino. È una testimonianza talmente importante, secondo me, che mi è venuta voglia di riprenderla e di riproporvela oggi dopo quarantatré anni dall’uscita. Lo stile “veronelliano” è irresistibile e affascinante.
Serena Sutcliffe, Clive Coates, David Wolfe, Nick Clarke e Hugh Johnson fanno – per “Decanter”, la più autorevole rivista inglese (chiaro: del nostro campicello) – l’esame, puntuale puntuale, dei più famosi cabernet sauvignon del mondo (Argentina, Australia, California, Cile, Cipro, Francia, Italia, Libano, Nuova Zelanda, Sud Africa, Spagna) e danno la palma – The best Cabernet Sauvignon wine in the entire wine tasting was… – al Sassicaia 1972. Che gioia, amici miei. Ricordo ancora, tanti anni fa, quella prima bottiglia, 1968 e ancora il racconto del Marchese Mario Incisa della Rocchetta (in me, emozionato, era la prosecuzione, incantevole, di quanto il vino già mi aveva raccontato): «l’origine dell’“esperimento” risale agli anni tra il 1921 e il 1925 quando, studente a Pisa e spesso ospite dei Duchi Salviati a Migliarino, avevo bevuto un vino, prodotto da una loro vigna sul monte di Vecchiano, con lo stesso inconfondibile bouquet di un vecchio Bordeaux da me appena assaggiato più che bevuto (a 14 anni non mi si permetteva di bere vino) prima del 1915, a casa del mio nonno Chigi”.
Tra il 1920 ed il 1930 prova in Piemonte, alla Rocchetta, il pinot nero; studia meglio i vini francesi e si convince: il pinot poteva convenire al Settentrione, all’Italia Centrale meglio si adattava il cabernet (e commenta: d’altra parte, per il bouquet che ricercavo, il cabernet era certo più indicato del pinot). “Trasferitomi stabilmente a Bolgheri nel 1942, avevo cercato una zona adatta al mio esperimento. A quel tempo qui si vinificava secondo il metodo tradizionale toscano, col “governo”. Ricordo che mio padre, piemontese, diceva che in qualunque altra parte del mondo un vino “governato” sarebbe andato a finir male; come del resto in qualunque altro paese del mondo, salvo a Jerez, un vino messo in botti scolme, in una cocente “solera”, diventerebbe nella migliore delle ipotesi aceto, ma non certo sherry.
Il vino di Bolgheri se non diventava proprio aceto era sempre cattivo ma in compenso ogni anno aveva un difetto differente: “quest’anno è venuto frizzante” diceva il cantiniere; “quest’anno è venuto maccherone” ma il perché di queste variazioni non lo sapeva nessuno. In compenso un po’ di “salmastro” il vino rosso l’aveva sempre: per la vicinanza del mare, si diceva, e per questo si tendeva a piantare in maggioranza viti a uva bianca. Forte di questi ammaestramenti avevo scelto per la mia vigna di cabernet (una minivigna di mille viti) un appezzamento a 350 mt d’altezza, per essere al sicuro dal salmastro; ed esposto a Sud-Est, perchè avevo letto che tanto i vigneti della Cote d’Or quanto quello del Médoc erano generalmente così esposti. Intanto, per un vero colpo di fortuna, avevo potuto procurarmi dall’azienda Salviati un certo numero di “marze” dalla vigna di Vecchiano che, innestate, avevo potuto collocare nell’appezzamento prescelto. Vinificazione fatta alla carlona, pulizia della cantina e degli attrezzi inesistente, “barriques” (visto che si trattava di cabernet) che perdevano da tutte le parti, imbottigliamento fatto come sia, si riusciva nondimeno a metter da parte circa due ettolitri di vino all’anno. Il giudizio di fattori e intenditori locali fatto al mese di marzo (quando qui, il vino è considerato “fatto” e commerciabile) era stato, ogni anno, concorde: un porcaio. “Ci fa il foco” diceva uno. “E girato” diceva l’altro. “Non si può bere” diceva un terzo.
Confuso e umiliato non avevo osato replicare e avevo letteralmente dimenticato quel vino. Quasi per caso me ne sono ricordato dopo anni. E piano piano, timidamente, ho cominciato a berlo e a farlo bere agli amici. Annata migliore, annata meno buona, aveva sempre le caratteristiche di un gran vino. Fatto, ripeto, artigianalmente; in qualche caso con acidità volatile che va oltre i limiti; con un deposito non fissato alla bottiglia, come un’accettabile “queue de renard” ma che si distacca in frammenti e naviga nel vino; in bottiglie troppo nere o troppo verdi riempite irregolarmente, tappate con sugheri lunghi un centimetro e mezzo, e così via…”.
Certo, ne scrissi (primo; vabbè, succede sovente). Altrettanto certo: ne ho orgoglio».
(Luigi Veronelli)