Ancora due parole sull’argomento “I vini di una volta”, riproponendo un mio articolo - che appare oltremodo attuale - di oltre 40 anni fa…
Visto che nell’editoriale della settimana scorsa dedicato ai vini di una volta ho autocitato un mio vecchio articolo che uscì sulla rivista Il Vino nel 1980, ve lo ripropongo a distanza di 42 anni. L’ho ritrovato nei meandri del computer e a parte qualche ingenuità stilistica dovuta alla mia allora giovane età (avevo 25 anni), mi è sembrato più attuale di quanto non pensassi. Ci sono tanti ricordi e tante persone care che non sono più tra noi, come Paola Di Mauro e Angelo Bruschi, come Vittorio Puiatti e Mario Schiopetto, e questo servirà anche a ricordarli.
La maggior parte degli enotecnici è violentemente contraria alle vinificazioni sulle bucce per i vini bianchi. A voler andare controcorrente si rischia la lapidazione verbale, colpevoli di eresia nei confronti del “Vangelo secondo Rivella”, nel quale sta scritto che la presenza di bucce provoca i peggiori inconvenienti del mondo, primo fra tutti un’eccessiva ossidazione dei mosti fermentanti. Va, quindi, rigorosamente evitata, almeno per le uve bianche.
Non voglio contestare la fondatezza di queste posizioni, non sono enotecnico, ma giornalista; tutt’al più enofilo, per cui davanti a tecnici del calibro di un Ezio Rivella, o chi per lui, è bene che non m’avventuri in polemiche, ubi maior… Posso, però, proprio da giornalista, raccontarvi di un incontro che ho avuto con un vino bianco, vinificato sulle bucce, che non presenta, almeno secondo me, tutti quegli inconvenienti che, in genere, quel tipo di vinificazione dovrebbe comportare, e spiegarvi come è stato prodotto, così, a titolo di semplice cronaca.
Il vino è un Marino Doc, cru Colle Picchioni, una piccola produzione voluta con determinata passione, più unica che rara, da Paola Di Mauro. Vignaiola di recente adozione, ha cominciato da qualche anno ad interessarsi del suo vino perché, dice, era stufa dei notevolissimi quantitativi d’aceto che il suo contadino le mandava regolarmente ogni anno. Con l’aiuto della sua tenacia e con la consulenza di un enotecnico “alternativo”, il prof. Palieri (che viene da qualcuno considerato come una delle maggiori iatture per la viticoltura regionale perché è contro il tendone, che ha diretto egregiamente per anni l’Istituto sperimentale per l’enologia di Velletri, ed ha vinificato alcuni “vinelli” come il Torre Ercolana e il Romagnano di Anagni), è riuscita a tirar fuori un piccolo capolavoro. Da vitigni Malvasia di Candia e puntinata, Trebbiano toscano, Bonvino e Cacchione, vinificatí, appunto, sulle bucce, all’antica, rinasce “il” Marino, quel vino “tosto” e generoso che i nostri vecchi ricordano bene. Di colore giallo oro limpido, con riflessi topazio, di odore ampio e vinoso, in cui riconosci mela cotogna, salvia ed anice, di sapore incredibilmente equilibrato, tenendo conto del tipo dì vinificazione, è asciutto e tannico; ha nerbo e corpo eccezionali; retrogusto amarognolo, tipico dei vini dei Castelli. Rimane, prima d’essere imbottigliato, circa sei mesi in recipienti d’acciaio inox o di vetro-resina. Può invecchiare in bottiglia per moltissimo tempo, alla faccia dei “bianchissimi” che, stranamente, maderizzano in nove secondi e nove, più veloci di Mennea sui cento (di qui la favola dei bianchi che non possono invecchiare).
Ho assaggiato ultimamente la produzione del ’74, con me c’era uno dei più esperti palati d’Italia: Angelo Bruschi (ex vice Presidente dell’Ais): siamo rimasti sbalorditi constatando che quel vino era perfettamente in sé. Eppure il segreto di questo vino è il classico segreto di Pulcinella, nel senso che sono procedimenti noti a tutti. Paola Di Mauro ed il prof. Palieri sono, infatti, i campioni dell’enologia “morbida”; i loro accorgimenti vanno dalla inverosimile cura nell’organizzazione della raccolta delle uve, cercando di fare in modo che neanche un acino venga rotto prima della pigiatura (cosa che, questa sì, farebbe ossidare i mosti), ad una estrema igiene dei locali di cantina, delle botti, dei contenitori, dei filtri ecc.; dalle fermentazioni lente, ottenute limitando il più possibile il contatto con l’aria, al loro bloccaggio attraverso i filtraggi ed i passaggi in cella frigorifera. Anche questa, a suo modo, è tecnica; certo, non è quella che si è abituati a vedere in giro, quella, per intenderci, dove trionfano le decolorazioni o l’anidride solforosa, quando va bene; è l’energia solare, che rispetta la natura e la tradizione.
Ripenso, a questo punto, al discorso che una volta ho sentito fare a Mario Schiopetto, e cioè che visto che oggi si va in automobile, non più a piedi come un tempo, non si capisce il motivo per cui non si dovrebbe, anche per il vino, adoperare le più moderne tecnologie. Vorrei, però, sottolineare il fatto che andare spesso in auto non esclude la possibilità di andarsene a piedi, qualche volta; anzi, sono convinto che ogni tanto ed in determinate circostanze, forse è meglio farseli due passi. In sostanza: ci sono decine di migliaia di etichette di vini, in Italia, che cosa possa comportare di tanto terribile il fatto che qualcuno vinifichi ancora all’antica, nel rispetto di usanze secolari, proprio non lo riesco a capire. Poi, signori miei, il vino si giudica quando si beve. Per cui mi stanno benissimo i bianchi di Schiopetto o di Vittorio Puiatti, però sono diversamente ma ugualmente stupendi il Pinot grigio ramato di Edino Menotti o questo Marino.
Certo, un vino del genere rischia di diventare la disperazione di ogni sommelier, presenta grossi problemi d’abbinamento, infatti; non provate neanche a metterlo sul pesce, sarebbe una catastrofe. Potrebbe andar bene, tutt’al più, su qualche particolare zuppa. Ma la sua “morte” è sui piatti della cucina romanesca, anche sulle frattaglie. E allora provatelo sulla trippa alla romana, sulla coratella coi carciofi (sì, sui carciofi, come è antica abitudine qui a Roma per i vini dei Castelli) o sullo stufatino “cor zellero” (con il sedano).