Alla luce delle conoscenze attuali e anche in considerazione delle sfide climatiche sempre più pressanti, siamo proprio sicuri di avere i migliori vitigni nei territori ottimali?
Prendo spunto da un editoriale di Stefania Vinciguerra, sulla contrapposizione territori e vitigni che tanto agita il nostro piccolo mondo talvolta “antico”. Leggendolo mi venne in mente una frase intelligente, ironica e decisamente tranchant che mi disse un grande professore di enologia di Bordeaux ormai scomparso a riguardo della grande biodiversità che sui vitigni abbiamo in Italia: “In Francia i migliori vitigni da vino li abbiamo selezionati 250 anni fa insieme ai territori dove vengono meglio”.
Una frase dura, forse spocchiosa ma che nascondeva una grande verità tanto più che in Italia, se vogliamo dirla tutta, c’era un’attitudine a selezionare i vitigni più resistenti e produttivi soprattutto con i piani agricoli degli anni Sessanta. Secondo questo indirizzo abbiamo vissuto l’espandersi di alcuni vitigni a scapito di altri ridotti a diventare mere comparse nella migliore delle ipotesi o quasi a sparire dal panorama. Alcuni li abbiamo o li stiamo recuperando ma bisogna anche ammettere che molti non avevano una personalità spiccata e forse la loro scomparsa è un problema più archeo-botanico che reale.
La sfida climatica
In questo periodo abbiamo anche una sfida climatica decisamente importante, con temperature mediamente più alte nei mesi centrali della maturazione delle uve e soprattutto mancanza di piogge nel medesimo periodo, un cocktail pericoloso ed estremamente difficile da gestire per il viticoltore. Una contaminazione con vitigni che meglio sopportano la siccità e le temperature elevate, potrebbero permettere una gestione più agevole del vigneto senza perdere il genius loci.
A ogni territorio il suo vitigno
A questo punto la domanda provocatoria è la seguente: alla luce delle conoscenze attuali, siamo proprio sicuri di avere i migliori vitigni nei territori ottimali?
Inoltre, siamo sicuri che questa corsa alla vinificazione in purezza di ogni vitigno autoctono sia la via per emancipare o valorizzare alcuni territori meno famosi ma dal gran potenziale?
Contaminazioni storiche
Abbiamo avuto delle contaminazioni ormai divenute storiche che hanno avuto un grande successo come il Cabernet nella zona di Carmignano recepito dalla Docg. O la grande intuizione dei fratelli D’Alessandro che hanno portato a Cortona il Syrah, che ha molto più senso del Sangiovese in quella zona e che ha dato lustro a tutto il territorio. Troppo banale citare Bolgheri che da terra di meloni, carciofi ed improbabili rosati è diventata una delle zone più note del mondo.
Tralasciando la Toscana possiamo andare in Sicilia con la nuova modifica alla Doc Monreale che prevede il Syrah come vitigno elevato a rappresentante rosso della denominazione. Magari, vista la qualità di alcuni alloctoni nella Sicilia sud orientale, si potrebbe ridefinire il Cerasuolo di Vittoria con vitigni diversi del Nero d’Avola e che meglio si sposano con il Frappato.
Altra dimostrazione di contaminazione è l’Oltrepò Pavese, dove il Pinot Nero è presente da anni insieme ad altri vitigno alloctoni bianchi e non solo per le basi spumanti. Francamente più interessanti della Croatina (Bonarda).
Tra le grandi riscoperte possiamo annoverare il Fiano Minutolo e il Sussumaniello in Puglia, il Caprettone sul Vesuvio, il Centesimino nell’enclave di Oriolo in Romagna, il Magliocco in Calabria, ma anche la grande cultura sui Cabernet dei Colli Euganei e tanti altri.
Forse ci vuole solo un po’ di coraggio, dei progetti e la creatività per uscire non da tradizioni ma da gabbie che mortificano le potenzialità di molti territori.
2 commenti
Argomento molto interessante e da approfondire. sono un modesto vitivoltore in maremma, ma in piu’ di quarant’anni di attivita’ di cambiamenti climatici e tecnici li ho visti,, vissuti e sentiti in prima persona. purtroppo conto poco per far ascoltare le mie deduzioni, non sono un Professore, no0n sono un giornalista, ma uno che ad ottant’anni gira per i vigneti e non solo e sebbene la terra “e’ bassa” s’inchina ancora per sentirla vicino.
Erik Banti
Premetto che sono agronomo e contadino di lungo corso. Per cui ho studiato e praticato molto, ho avuto modo di guardare e analizzare i vari approcci agricoli.
La mia idea e’ che l’attuale modello agricolo va rivisto, i nostri antenati per millenni hanno selezionato metodi e varieta’ che gli permettevano di produrre. Cio’ non perche’ avevano piu’ conoscenze di noi, ma perche’ l’alternativa era la fame e qualche volta la morte. Noi abbiamo pensato di cancellare tutto il sapere accumulato e con le nuove tecniche e fattori di produzione dove e come volevamo. Risultato avvelenamento del cibo e problematiche plurime es. Impoverimento del suolo con relativa cali produttivi, problematiche fitosanitarie distruttive ecc.