Dall’esaltazione del territorio di provenienza a quella, di senso contrario, del vitigno o del metodo. Cosa conta di più?
“I nemici dell’origine” può apparire un titolo provocatorio in un’epoca storica in cui si parla tanto di territorio, ma purtroppo ha un suo fondamento in una corrente neanche troppo sotterranea che si intravede nell’atteggiamento di giovani guru del vino.
Forse per andare controcorrente, forse per vera convinzione, dalle loro parti di sente inneggiare al metodo e al vitigno, che sono da sempre culturalmente contrapposti al territorio.
Proteggere il territorio
Le nazioni dove si produce vino, non solo l’Italia quindi ma anche Francia, Spagna, Germania… sono molto attenti a definire e proteggere i territori di produzione. In Italia abbiamo avuto, primi al mondo, il bando del granduca Cosimo III de’ Medici, che già nel 1716 delimitò le zone di produzione del Chianti (oggi Chianti Classico), del Carmignano, del Valdarno di Sopra e del Pomino (all’epoca non si parlava di Rufina), per sottolinearne la grandezza e tutelarne i rispettivi territori in quanto capaci di dare ottimi vini.
Poi sono arrivati i disciplinari di produzione, le Aoc (Appellation d’origine contrôlée) in Francia, quindi le Doc (Denominazione di origine controllata) da noi, le Do (Denominación de origen) in Spagna, tutte concentrate proprio sull’origine dei vini e ormai confluite nelle Dop europee.
I paesi solo consumatori, di contro, sono sempre stati più attenti ai vitigni e ai metodi di produzione, forse perché dal loro punto di vista è più importante decidere di bere un Cabernet che un Bordeaux o un Bolgheri, o uno spumante, che un Cava o un Prosecco (lo Champagne è storia a sé).
La definizione dei “cru”
Bene, che cosa sta succedendo oggi? Mentre da una parte i territori di produzione “si fanno in quattro”, definendo Mga (menzioni geografiche aggiuntive) o Uga (unità geografiche aggiuntive), che al di là delle orribili sigle definiscono ancora più dettagliatamente le zone di produzione, dall’altra c’è chi rinnega tutto ciò e torna a inneggiare a generici vini orange, ancestrali o a non meglio definiti “vini naturali”. Dove questi vengano prodotti non conta più, conta solo l’idea che si portano dietro, un fantomatico ritorno alla natura stile Robinson Crusoe e pazienza se tutto questo ha poco a che fare con l’impegno che un vignaiolo ripone nel cercare di far esprimere al meglio le caratteristiche della sua terra nella ricerca della qualità finale.
Con buona pace dei nostri migliori produttori, che si dannano per far emergere il loro territorio di appartenenza.
5 commenti
condivido totalmente!
Pienamente condivisibile
Eccellente. Puntuale.
Hanno sempre il merito di stimolare e ampliare le problematiche legate al mondo del vino
Ci sono molte semplificazioni in questo breve post, come è ovvio che sia visto che si tratta di divulgare e far discutere, non certo di uno spazio di vero approfondimento.
E’ però un fatto che per colpe reciproche, non solo dei produttori di vino naturale come si lascia intendere, l’attuale sistema di Denominazione di Origine, spesso non accolga le nuove leve o perché le esclude (i.e. le commissioni di assaggio non conferiscono la DOC a vini che lo meriterebbero) o perché i produttori naturali non si sentono sufficientemente rappresentati e a “loro agio” nell’attuale sistema di rappresentanza.
Personalmente la prima cosa che faccio quando assaggio un vino fuori DOC è chiedere al produttore “perchè”? Secondo me le D.O. sono migliorabili ma non vanno assolutamente abbandonate. Mi piacerebbe che per primi produttori come ad esempio Montevertine rientrassero nella DOCG e facessero i leader di una nuova mentalità e non i bastian contrario autoreferenziali, per esempio.