Sempre nel solco di riprendere vecchi editoriali che mi sembrano molto attuali e in un momento nel quale tanti si godono le ferie e di notizie eclatanti nel mondo del vino non ce ne sono molte, vi ripropongo questo.
Una delle discussioni più frequenti nel mondo del vino, ma anche in quello dei prodotti alimentari, è se debba contare di più l’origine, e quindi tutte le denominazioni controllate o protette, oppure il processo produttivo.
La prima posizione, quella a favore della provenienza dei vari prodotti, è sostenuta soprattutto dai Paesi che hanno una tradizione in questo senso. Francia e Italia soprattutto, in parte Spagna, Portogallo, Germania, Svizzera ed Austria. Nazioni che difendono l’unicità del proprio comparto agroalimentare con un sistema di denominazioni protette e di relative legislazioni tese a difenderle ma anche a regolamentarle.
La seconda posizione, invece, è appannaggio di quegli Stati che, sostenendo un principio di concorrenza più liberista, sostengono che se un processo produttivo è in grado di dare risultati analoghi sotto forma di qualità e di riconoscibilità, allora le denominazioni non sono altro che rendite di posizione e turbative di mercato. Posizioni abbastanza frequenti in Gran Bretagna, negli Stati Uniti, in Australia, ed oggi anche in Cina. Se si vuole proteggere qualcosa, ma come opera dell’intelletto, allora bisogna registrare i marchi, altro che denominazioni.
E quando un vino somiglia a un Dop?
E se io riuscissi a produrre un vino rosso con uve Nebbiolo, invecchiandolo tre anni in legno ed in bottiglie, ed una commissione qualificata non riuscisse a distinguerlo da un Barolo Docg, perché non dovrei avere il diritto di chiamarlo Barolo a tutti gli effetti?
Ragionamenti del genere, che fanno rabbrividire da noi, sono molto più comuni di quanto si possa pensare in parecchi Paesi del mondo, che, guarda caso, sono anche i maggiori mercati per il nostro export alimentare, vini in primis. Questo significa principalmente due cose.
L’unicità della denominazione d’ origine
La prima è che dobbiamo far capire perché una denominazione di origine sancisca realmente l’unicità di un prodotto, attraverso una comunicazione efficace e tecnicamente inattaccabile. La seconda è che sui disciplinari di produzione non si può scherzare, e che devono essere rispettati rigorosamente. Passi per l’eventuale rendita di posizione, ci potrebbero dire, ma almeno rispettate le regole che vi siete dati per poterne usufruire. E questa è una cosa che, almeno in Italia, non sempre è chiara a tutti come dovrebbe.
Perciò credo proprio che chi produce vini o alimenti di qualità, protetti da disciplinari, regolati da leggi, anche se li ritenesse inadeguati, perfettibili o, al contrario, eccessivi, abbia prima di tutto il dovere di rispettarli, pena la distruzione di un sistema che garantisce meriti, riportando tutti sullo stesso piano con un conseguente crollo del reddito agricolo. Qualcosa che sarebbe folle augurarsi.