I vini che si producevano in Italia negli anni Settanta, prima della “rivoluzione tecnica” non erano molto diversi da quelli attuali che si definiscono vini artigianali o ancestrali. Alcuni erano, e sono, deliziosi. Altri decisamente no.
Quando mi sono appassionato al mondo del vino, nella seconda metà degli anni Settanta del secolo scorso, avevo poco più di vent’anni. Ho fatto a tempo ad assaggiare gli ultimi vini “ancestrali”, “contadini”, come volete chiamarli, prima della grande rivoluzione tecnica che ci fu subito dopo. Comincio col dire che a quell’epoca le presse orizzontali per la vinificazione delle uve bianche erano una rarità assoluta. Si usavano i torchi di legno e molti erano di fatto degli orange wine o qualcosa di molto simile, perché il mosto e le bucce entravano inesorabilmente in contatto.
Di legni piccoli per i rossi, barrique e tonneau, non se ne parlava proprio. Il primo vino “barriccato” in Italia è stato probabilmente il Foianeghe del 1961 di Bossi Fedrigotti, realizzato sotto la direzione tecnica di Nello Letrari, mai troppo ricordato. Poi, per arrivare al Sassicaia, ci vollero altri anni e a detta di Tachis fino alla versione del 1972 non si poteva parlare di maturazione in barrique in senso stretto.
Quindi “i vini di una volta” erano delle versioni, qualche volta più ingenue e tecnicamente traballanti, di alcuni grandi vini “tradizionali” di oggi che comunque sono realizzati in modo più consapevole e meno casuale, anche quelli più artigianali. Perciò quasi tutti i vini bianchi erano dorati e qualche volta orange, quasi tutti i vini rossi erano fatti maturare in botti grandi, spesso vecchie ed esaurite, quando non finivano direttamente in damigiana. Qualche vasca di acciaio si cominciava a vedere in giro, ce n’erano parecchie in vetro resina, e il vino sfuso imperversava molto più di oggi.
La mia prima vendemmia, da operaio di cantina o giù di lì, fu quella del 1979 a Colle Picchioni, comune di Marino, ma verso Frattocchie, sui Colli Albani. La proprietaria era Paola Di Mauro, grande amica di mio padre, che “assoldò” me e un mio amico per dare una mano e anche per imparare qualcosa. Io ero addetto al torchio e ho passato giorni interi a manovrare la pressa che ammostava l’uva che veniva scaricata direttamente lì dentro. Prima che andasse a fermentare in un moderno contenitore in acciaio passava un bel po’ di tempo e il vino si sarebbe poi colorato di un bel giallo dorato, quasi ambrato chiaro.
Scrissi uno dei miei primi articoli sulla rivista friulana Il Vino, diretta da Isi Benini, dal titolo “Il Marino sulle bucce” raccontando di quel vino così tradizionale. Me ne dissero di tutti i colori. In Friuli, in particolare, avevano iniziato a vinificare in modo “moderno”, e Vittorio Puiatti, Gigi Valle, lo stesso Mario Schiopetto, e poi Piero Pittaro, giovane leone dell’enologia di allora che poi sarebbe divenuto presidente dell’Associazione Enotecnici Italiani, insorsero dicendo che parlavo di vini ossidati e imbevibili. Se ci pensiamo le polemiche odierne non sono poi così diverse.
Tutto questo mi è tornato in mente assaggiando un vino che mi ha riportato magicamente a più di quarant’anni fa. Si chiama Vinum Bianco, è del 2018, e lo produce Guido Gualandi a Montespertoli, in Toscana. Le uve sono Trebbiano Coda di Cavallo e Malvasia Lunga del Chianti. Lui è anche un archeologo e ha riprodotto dei sistemi di lavorazione di molti anni fa. Perciò torchi di legno e materiali di cantina che sono identici a quelli usati cent’anni fa. E mi è sembrato di veder rivivere quel Marino sulle bucce, dorato, leggermente opalescente, salato, anche un po’ amarognolo sul finale. Farà arrabbiare qualche “purista” ma a me è piaciuto un sacco.